Le origini
Non è nota la data di fondazione della chiesa matrice di san Severino abate in Sansevero, ma la sua esistenza è attestata nel settembre del 1059 dall’atto di donazione con cui «ecclesia que constructa est in onore Beati Severini cum totis suis pertinentiis» è ceduta da due possidenti di Civitate, Bocco padre e figlio, al monastero di santa Maria di Tremiti. È intorno a questo edificio sacro, edificato sulla Via Francigena, che si forma il Castellum Sancti Severini, ossia l’odierna città di Sansevero, documentato per la prima volta dall’editto dell’abate benedettino Adenulfo del 27 aprile 1116. La chiesa severiniana è dunque preesistente all’abitato e ne rappresenta la radice oltre che il cuore religioso e simbolico.
Nella sua forma originaria l’edificio, costruito in pietra, aveva tre navate. L’odierna facciata principale mostra, nella parte inferiore, i resti della primitiva struttura in conci di pietra squadrata, e sono evidenti i due spioventi laterali, corrispondenti alle navate minori. Durante gli scavi eseguiti all’interno del tempio nel 1989 sono emersi i basamenti di due pilastri integri, di altri due parzialmente conservati e delle due paraste di controfacciata, consentendo di ipotizzare con buona approssimazione l’originaria scansione in campate della chiesetta, che doveva apparire non dissimile dalla chiesa rurale di santa Maria di Devia o Monte d’Elio, nel comune di San Nicandro Garganico (le piante, per di più, sono quasi sovrapponibili). Il semplice massiccio capitello lapideo che, rovesciato, fa tuttora da base del fonte battesimale è verosimilmente uno dei capitelli che coronavano i pilastri. Sul lato sinistro della chiesa era il camposanto parrocchiale. Il massiccio campanile sul lato destro, in pietre squadrate di fattura diversa rispetto alla facciata del tempio, risale credibilmente al xii secolo.Il primo ampliamento (entro il 1224)
Un primo ampliamento è documentato dalla riconsacrazione («noviter consecratae») «praesenti ecclesiae Beati Severini de Sancto Severo» nel maggio 1224, ad opera di Risando vescovo di Molfetta, eternata sull’architrave del portale maggiore del tempio, in cui si sintetizza il contenuto di una pergamena vergata per l’occasione.[1] Cresciuto l’abitato, e nate altre tre parrocchie (San Nicola, Santa Maria e San Giovanni), la chiesa matrice fu resa più ampia abolendo la partizione in tre navate e ottenendo, in questo modo, una più capiente e ariosa aula liturgica. La ristrutturazione fu talmente radicale da rendere necessaria la riconsacrazione.
Il secondo ampliamento (1296 ca.)
Il 21 maggio 1296 Carlo II d’Angiò concesse ai sacerdoti di Sansevero, che ne avevano fatta espressa richiesta, di utilizzare «muros et lapides» del semidiruto palazzo, chiamato Bellumvidere, che Federico II di Svevia aveva fatto edificare in città. Il clero pretendeva che l’imperatore svevo avesse costruita la sua residenza utilizzando le pietre delle chiese e dei palazzi cittadini fatti spianare per punizione, ma questa notizia è del tutto infondata. Ciononostante, il monarca angioino fece buon viso e destinò appunto i conci lapidei del palazzo «pro instauratione edificiorum ecclesiarum».[2] È evidente che, nella divisione dei materiali, la chiesa matrice esercitò un ruolo prevaricante: gran parte delle pietre e delle decorazioni del Bellumvidere servirono, infatti, per il grande ampliamento del tempio di San Severino, che in questa occasione fu trasformato in un edificio a croce latina, aggiungendosi alla primitiva navata il transetto e l’abside. È verosimile che alcune preesistenze architettoniche nella zona in cui si sarebbe dovuto sviluppare il braccio sinistro del transetto impedirono di costruirlo in forma regolare, come invece si riuscì a fare per l’altro, che inglobò un lato del campanile. L’abside, inoltre, fu progettata non in asse colla navata, ma inclinata a destra, per evocare il capo reclinato di Cristo morente. Diversi elementi decorativi di pregio furono impiegati per arricchire il campanile (una bifora con archivolto in breccia corallina) e la nuova facciata di transetto, su cui spicca il raffinato archivolto del palazzo imperiale, analogo a quello del palatium della vicina Foggia e chiaramente opera della stessa mano, quella del protomagister Bartolomeo. Di mano più modesta risultano il rosone a sei raggi e i due leoni che sorreggono l’archivolto, con ogni probabilità realizzati in sostituzione delle originarie aquile imperiali.[3] All’interno, verosimilmente per collegare la navata alla facciata di transetto, irrobustire quest’ultima e permettere di poggiare il tetto, fu addossato al campanile un grande arco a sesto acuto, reimpiegando parte di una mensola federiciana.
Tra Quattro e Cinquecento
Il clero di San Severino, retto da un arciprete, dominò la vita religiosa cittadina per secoli. Nell’autunno del 1528, per giunta, si attribuì al santo patrono la salvezza della città, minacciata di distruzione dall’esercito imperiale. Il santo, apparso a cavallo sulle mura urbiche e dichiarato «Defensor Patriae», divenne il simbolo ufficiale di Sansevero, e la chiesa matrice ottenne, tra l’altro, il versamento annuale di un voto di trecento libbre di cera, poi ridotte a cento. Risale a questo periodo il busto ligneo del santo patrono, indorato, contenente una reliquia insigne del protettore, una scultura raffinata, forse di mano veneta, al pari della pala della Madonna di Costantinopoli, datata 1540, donata dalla Repubblica di Venezia alla città, allora sede di fondaco veneziano.
Nel 1580 Severino de Letteriis donò alla chiesa «una pila lapidea» per l’acqua santa, che i fedeli trovavano a destra entrando dalla porta maggiore. Era accompagnata da un’iscrizione reimpiegata nel palazzetto costruito all’angolo della chiesa e oggi perduta («verinvs – diletem – fieri fecit – a.d. 1580»).[4] Infondata è la notizia, derivata dalla confusione tra fonte dell’acqua santa e fonte battesimale, che collega questa donazione, fatta a tutte le quattro parrocchie cittadine, ai relativi battisteri medievali, ritenuti a torto cinquecenteschi.[5]
La primazia del capitolo severiniano durò fino allo stesso 1580, quando la sede della diocesi di Civitate fu trasferita a Sansevero e per scegliere la cattedrale si svolse un «concorso» tra le quattro parrocchie, cui «precorse la Parrocchia di S. Severino, come prima, adducendo per suoi meriti: l’essere il S[anto titolare il] Protettore e Difensore della Città, la singolare consegrazione di detta Chiesa fra l’altre Parrocchie fatta nel 1224 […], il vantaggio di prima Madre. L’ampiezza della Chiesa, la struttura delle mura [in pietra, mentre le altre parrocchiali erano costruite in laterizio], il famoso campanile [il più alto nonché l’unico, tra quelli delle quattro arcipreture, edificato in pietra], il sito congruo nel grembo della Terra [ossia nel cuore della città], la fertilità delle rendite, il fiorito ceto degli Ecclesiastici teneva in pugno più che per certo il conseguimento di quelle».[6] Tuttavia, ufficialmente per la superiorità di rendite ma forse anche per punire il clero severiniano per la condotta poco ortodossa tenuta durante il Grande Scisma,[7] fu scelta come cattedrale la chiesa di santa Maria.
Il terremoto del 1627
Antonio Lucchino, nella descrizione della città che precede la cronaca del terremoto del 30 luglio 1627, scrive che «dentro questa Chiesa fra le altre vi è una moderna Cappella di S. Carlo Arcivescovo di Milano e Cardinale, e con la sua effigie al vivo venuta da Roma», inoltre «tiene la Chiesa il suo organo ed uno Campanile, che per lo modello, ed architettura di fabbrica, sarebbe stato assai riguardevole s’avesse tenuta la sua proporzione compita», ossia se fosse stato completato, mentre evidentemente mancava della parte sommitale e doveva apparire poco slanciato; ospitava cinque campane.[8] Grandi i danni del violentissimo sisma (stimato di magnitudo 6.7 dall’INGV): «Della Chiesa di S. Severino cadde quasi tutto il tetto, che ne rimase solamente picciola parte sopra la cappella di S. Carlo; caddero tutte e due le mura sopra il cimitero (ossia la parete sinistra della navata e la contigua parete sinistra del braccio di transetto), e vi rimasero oppressi tre Preti che ivi dormivano al fresco, che due ne morirono, ed uno si salvò ferito in molte parti del corpo. Rovinarono le cime del campanile, in cui lo squillone [la campana che annunciava il giorno] si spezzò in più parti. La campana più grande si aprì in una parte, l’altre rimasero illese, e di quella dell’orologio, ancorché cadde fuori della strada, se ne spezzarono solo le maniche».[9]
La ricostruzione secentesca
La ricostruzione fu lenta. Il lungo sciame sismico, il terremoto del 31 maggio 1646 (magnitudo 6.3) e la peste del 1656 avevano messa a dura prova la popolazione, e per lungo tempo ci si contentò di sopravvivere in una normalità sommaria. Anche sulle chiese si intervenne in misura essenziale, solo per ripristinarne la funzionalità, evitando di costruire pareti troppo elevate e coperture complesse.
Mons. Sacchetti, nella visita del marzo 1640, descrive la chiesa «nunc primum in pristinam formam refecta ex elemosina», ma la ricostruzione era ferma all’indispensabile, e difatti «indiget tamen reparatione Chori, et pavimenti, et parietes non sunt dealbatae, nec incrustatae». Ciononostante, nella cappella di san Carlo, l’unica su cui non era crollato il tetto e che era adorna di una statua del santo in porfido, si conservava il Sacramento «in Custodia lignea in partem deaurata». Perduto l’altare dello Spirito Santo, restavano quelli di san Marco e della Madonna delle Grazie, nonché la cappella di san Giuseppe della confraternita della Morte, ossia il sottano del campanile, antica sacrestia.[10]
Nel 1652 il clero parrocchiale sollecitò il pagamento del voto al santo patrono, l’offerta annua dell’amministrazione comunale per il miracolo del 1528, sottolineando che «esso Clero s’offerisce applicarla alla reparatione del Campanile di detta Chiesa» e che il civico governo avrebbe dovuto pagare «lo danaro della valuta di detta cera per sua propria mano alli Mastri che rifanno dett’opera».[11]
Nel 1660 il pagamento del voto a san Severino è sollecitato «tenendo di bisogno d’Altari come d’organo, ad honore e gloria di detto Santo», tanto che il principe di Sangro annuiva sottolineando che «detto denaro […] servirà per farsi l’organo in detta Chiesa»,[12] anche se lo strumento fu realizzato solo nel 1685, opera di Giacinto Jacobone di Vico del Gargano, insieme alla pavimentazione della «prima nave della chiesa, avanti all’altare maggiore».[13]
Tra il 1689 e il 1692 fu costruita la nuova sacrestia, a destra dell’abside, con volta in muratura. Le spese furono in parte coperte dalla congregazione dei morti (ottanta ducati su duecento complessivi), in cambio della riapertura della loro cappella, chiusa anni prima dall’arciprete Giuseppe de Magris (parroco dal 1667 al 1725) al fine di punire i confratelli «per alcune differenze», ossia contrasti col clero parrocchiale.[14] La confraternita rimase nella cappella di san Giuseppe fino al 1722, anno in cui la lasciò per trasferirsi nella chiesa della Pietà, ottenuta dal capitolo severiniano nel 1707.
L’arciprete de Magris fece elevare il pavimento del transetto e «aggiunse altri due gradini all’altare maggiore, così da renderlo più visibile, e su di esso collocò altro gradino dorato ed intarsiato, con due cherubini ai lati ed in mezzo il tabernacolo».[15]
Gli interventi settecenteschi
Nel Settecento Sansevero, compiuta la riformulazione del tessuto sociale cittadino e definita una nuova articolazione economica, si trasformò in un grande cantiere tardobarocco. Uno dei simboli della rinascita fu proprio il campanile di San Severino, consolidato e completato in laterizio, nella parte superiore, entro il 1730, a oltre un secolo dal sisma che lo aveva diroccato. Coi suoi cinquanta metri d’altezza era la solidificazione della speranza, un’apotropaica sfida ai sismi, confermata positivamente l’anno seguente, quando un nuovo terribile terremoto (magnitudo 6.53) fece della vicina Foggia una distesa di macerie ma non recò alcun danno alla svettante torre severiniana.
Nella chiesa i lavori erano iniziati da tempo, durante il lungo parrocato di de Magris. Nel 1717 si era sistemato il battistero, coprendo il fonte tardomedievale con un elegante baldacchino in legno di noce e decorando a stucco la cappella.[16]
Protagonisti della ristrutturazione barocca della chiesa matrice furono gli arcipreti Niccolò Maria Tondi, alla guida del capitolo severiniano dal 1725 al 1748, e Antonio Claves, che resse le sorti della parrocchia dal 1748 al 1781. Dalla testimonianza secondo cui Tondi «livellò il plafond della nave centrale col capocroce [la crociera] e con l’abside, restando ancora più basso il plafond dei due bracci del transetto»,[17] si deve dedurre che l’abside e la crociera erano state precedentemente elevate, quindi da de Magris, fino alla quota odierna e che l’arciprete continuò la soprelevazione del tempio facendo costruire il secondo ordine della navata. Questo intervento richiese la costruzione di un robusto sistema di consolidamento, a scapito della larghezza dell’aula liturgica: possenti arcate furono addossate internamente alle pareti laterali e alla controfacciata, aumentando sensibilmente lo spessore della muratura. La sopraelevazione è perfettamente leggibile nel tessuto murario della facciata maggiore, nel cui timpano un graffito sull’intonaco indica la data dei lavori, il 1731: furono utilizzati laterizi e materiali di risulta (diversi conci lapidei provenienti dal cimitero parrocchiale), e il prospetto fu definito da un frontone con semplici volute in cui si collocò una statuetta medievale raffigurante san Severino. Il finestrone rettangolare, dalla cornice ben evidente, fu successivamente sostituito da una più elegante apertura mistilinea rococò. Fu probabilmente in questa fase che il portale fu modificato, aumentandone l’apertura e inserendo il frontone spezzato. Per consolidare ulteriormente la chiesa, si costruì anche una palazzina a ridosso della navata, a sinistra, a mo’ di contrafforte, coprendo uno dei due lati ancora visibili della base del campanile.
Tondi morì prima che i lavori nella navata fossero completati: pare si debba a lui, infatti, la commissione del plafond col Miracolo di san Severino, di cui nel Kupferstichkabinett di Berlino si conserva oggi lo schizzo, attribuito al celebre pittore napoletano Francesco Solimena, morto nel 1747, ossia l’anno precedente la scomparsa di Tondi,[18] ma risulta che fu Claves che «al centro del plafond dell’aula fece dipingere S. Severino a cavallo in atto di difendere la Città», quadro in tal caso realizzato da un allievo di Solimena, com’era per esempio Alessio d’Elia, autore del plafone della Cattedrale.[19]
Nel 1749 Claves commissionò all’organaro romano Innocenzo Gallo il nuovo organo a canne (non si conosce il nome dell’artista che realizzò l’elegante cassa e la fiorita veranda), realizzato entro l’anno seguente e collocato nel braccio sinistro del transetto con fronte rivolto alla navata. Nel 1757, invece, fu progettato il coro ligneo, opera del maestro falegname della Real Casa Romolo Baratta, originario di Avellino.[20] Questi, l’anno seguente, eseguì anche la calotta della cupola nella crociera, in legno «a cielo di carrozza», e i controsoffitti dei bracci di transetto e del presbiterio,[21] tutti rivestiti di tela e dipinti con eleganti quadrature prospettiche di ignoto, completandosi la decorazione avviata nella navata. In questi anni Claves fece anche elevare «pareti e soffitto dei due bracci di transetto», elevazione ben visibile nella facciata di transetto.[22] La documentazione relativa a queste fasi risulta quasi totalmente dispersa, restando solo una rubrica su un foglio-carpetta oggi vuoto che recita «Conti della Chiesa cioè quello [che] si è speso per l’organo, coro, stucco, e suffitto […]».[23] Nella voce «stucco» è probabile rientrasse non solo la sobria decorazione plastica (capitelli, cornici, cartocci) ma anche i finti marmi che, con finiture in argento meccato, ricoprivano tutte le pareti (oltre all’organo a canne). Non risultano, invece, costose commissioni marmoree: gli altari erano in stucco e non c’era balaustrata; fanno eccezione le due acquasantiere in bardiglio, con piccoli dossali, poste sulle paraste tra le prime e le seconde campate della navata, e le due perdute mensole portampolle, di cui restano tracce sulle paraste ai lati dell’altare maggiore.[24]
Il programma iconografico del tempio settecentesco è in buona parte ricostruibile grazie alla testimonianza dello storico Matteo Fraccacreta. Nel presbiterio, nelle specchiature mistilinee laterali, si vedeva a destra «Davide che coll’arpa salmeggia», a sinistra «le tende Israelite con Mosè e Dio sul Sina[i]», mentre ai lati del finestrone del primo ordine erano due ovali con a sinistra «S. Severino in Pontificale col pallio in mano, vicina la Città» e a destra «S. Severo Vescovo in piedi». Sulla controfacciata, dove la porta maggiore era preceduta da un «vestibolo quadro» con «due colonnette negli angoli», era dipinto «il Salvatore che discaccia i mercatanti dinanzi al tempio». Fraccacreta non vide altro perché «la Chiesa tutta era ben dipinta fino al 1780, in cui l’Arciprete D. Giuseppe Lacci la biancheggiò, lasciando li soli capitelli de’ pilastri indorati [e] le dette pitture».[25] In quell’anno era scoppiata una pandemia influenzale, il cosiddetto morbo russo, e l’imbiancatura, che fu effettuata a calce, aveva verosimilmente scopo di disinfezione. Furono coperti anche gli affreschi dei pennacchi della cupola, che rappresentavano i quattro grandi padri della Chiesa latina (Agostino, Ambrogio, Girolamo e Gregorio Magno).
Nel 1769, ceduto ai padri celestini il fabbricato che fu abbattuto per ottenere l’attuale piazza Municipio, l’arciprete Claves ottenne di far costruire una palazzina sull’antico cimitero parrocchiale – che molti anni prima de Magris aveva fatto recintare con «muraglia con cancello di ferro» – rinforzando la fabbrica della chiesa anche sul lato sinistro.[26]
Nel 1772 Domenico Summantico fece sostituire la botola marmorea che dava accesso alla tomba della sua famiglia, dettando questa iscrizione: «familiaris summanticorum monumenti / temporum vetustate detritam / ac paene obliteratam epigrafem novo / marmore dominicus postremus / de familia restauravit / an. d. mdcclxxii / n. mh. e. n. s.».[27]
I lavori ottocenteschi
Col decennio francese e la fine della feudalità il clero ricettizio di San Severino subì notevoli contraccolpi economici. Diminuite le rendite, gli investimenti sul tempio si ridussero in qualità e in quantità.
Nel 1817 fu commissionata allo scultore napoletano Arcangelo Testa la nuova statua del patrono, per sostituire l’antico busto, profanato durante il sacco francese del 1799 e spogliato della piastra d’argento dorato contenente la reliquia del santo.[28]
Intorno al 1820 il vestibolo della porta maggiore fu distrutto, mentre nel 1825 si chiusero le sepolture ipogeiche, a cominciare dalle due grandi tombe comuni poste all’inizio della navata.[29] Nel 1832 fu murato l’accesso alla cappella di san Giuseppe, che fu messa in comunicazione colla palazzina attigua, di proprietà parrocchiale, per affittarla a privati.[30]
Nel biennio 1857-58, a cura dell’arciprete Domenico de Lisi, si eseguirono lavori di ristrutturazione generale dell’interno, sotto la direzione dell’architetto Domenico Angelitti. Un’iscrizione incorniciata da stucchi sulla controfacciata ricorda gli interventi effettuati, ma la sua realizzazione indica anche che l’affresco ricordato da Fraccacreta non era più visibile. Si ripararono e ridipinsero i soffitti, si rifece il pavimento e furono realizzati tre altari marmorei, il maggiore, raffinata opera neoclassica napoletana, e due minori per le terze campate, più modesti e sovrastati da nicchie in stucco neorococò. Il soffitto della navata, in particolare, fu completamente rifatto, e scomparve il dipinto solimenesco, sostituito da un più ampio ma mediocre lavoro del sanseverese Alfonso D’Anzeo. Fu il pingue legato della signora Mattia Giuliani, insieme alle offerte dei parrocchiani, a coprire le non poche spese. In occasione dei lavori Domenico e Prospero Fania fecero restaurare la tomba di famiglia, nel braccio sinistro del transetto, come testimonia l’iscrizione sulla botola della stessa.
Per effetto dell’asse ecclesiastico del 1877, lo Stato confiscò quasi tutti gli immobili della parrocchia, compresa la palazzina angolare comunicante col vano sottano del campanile. Nel 1880 furono collocate sulla torre due meridiane in marmo, opera di Salvatore Caruso. Nello stesso anno si sostituirono, nelle due campate centrali della navata, gli altari in stucco con altari in marmo. Al 1888 risale, invece, la grande bussola lignea dell’ingresso, opera di Vincenzo Russi.[31]
Nel 1895 l’arciprete Vincenzo Trotta fece eseguire dei restauri a spese proprie e dei suoi parenti e amici: si ripararono i tetti, fu sistemata e adibita a deposito di suppellettili la stanza attigua al braccio sinistro del transetto (l’antico ossario, murato nel 1825), si ridipinsero in parte a colla e in parte a olio tutte le pareti della chiesa e si posero sulle paraste dodici croci di consacrazione in ferro fuso e dorato.[32]
Il Novecento
L’arciprete Raffaele Papa, succeduto a Trotta nel 1900, promosse presto grandi lavori generali, diretti dall’ingegnere Alfredo Bugamelli. Dalla fine di giugno del 1902 al 25 marzo del 1903, la chiesa restò chiusa per permettere l’esecuzione di «pitture, doratura, decorazioni, figure» sulle pareti e sui soffitti, opera di Gennaro Cavallo, mentre un altro pittore realizzò la Presentazione al tempio e la Predica di san Francesco Saverio agli indiani nelle due specchiature ai lati dell’abside. Fu inoltre «abbassato il gradino di tutta la nave minore», ossia il transetto, per livellarlo «con quello della nave maggiore», e fu circondato con balaustrata in marmo, opera di Vincenzo Postiglione, il presbiterio.[33]
Nel 1908 san Severino fu confermato patrono principale dalla Sacra Congregazione dei Riti e, desiderando dare maggiore centralità al santo, tra l’aprile e il luglio del 1915 l’arciprete, a sue spese, fece costruire sul fondo dell’abside una grande cona marmorea per la statua del protettore e fece spostare l’altare maggiore sotto la nuova cona, riducendo l’area del presbiterio e adattando il coro ligneo settecentesco ai soli lati.[34] Nel 1909, invece, era stato costruito in marmo, nel braccio destro del transetto, l’altare di sant’Anselmo, con relativa cona. Nel maggio del 1924 fu realizzato l’altare completo di cona, in stucco e finti marmi, per la statua della Madonna Rifugio dei peccatori, nel braccio sinistro del transetto.
Nel 1932 l’arciprete Ernesto d’Alfonso fece abbattere la sacrestia secentesca per costruire una palazzina più funzionale, in stile neoromanico, progettata dall’ingegnere Umberto Pazienza. Nello stesso tempo, la chiesa fu ripavimentata con mattonelle in cemento colorato, mentre le piastrelle conservate meglio tra le preesistenti, opera ottocentesca in cotto invetriato, furono utilizzate nella nuova palazzina.
Nel gennaio 1960, a causa di preoccupanti lesioni nel campanile e negli archi della cupola, la chiesa fu chiusa al culto e dichiarata inagibile. Fino al 1977 non ci fu alcun intervento, nonostante la mobilitazione popolare e le richieste istituzionali al Ministero competente. Nel frattempo le coperture, ammalorate, cedettero in più punti, permettendo alle acque meteoriche e ai volatili di danneggiare l’interno.
Nel 1977 furono avviati i lavori di risanamento statico, a cura della competente Soprintendenza ai beni artistici. Il campanile fu restaurato totalmente, con inserimento di catene di contenimento, infiltrazioni di cemento, costruzione di nuove scale e solai. Il rivestimento in maioliche della guglia piramidale, molto deteriorato, fu filologicamente ripristinato.
Gli interventi all’interno, che miravano a ripristinare la scomparsa versione medievale del monumento che si credeva semplicemente occultata da superfetazioni barocche, inizialmente non hanno preso in considerazione la conservazione della decorazione d’età moderna. Tutti i soffitti dipinti, rovinati dai crolli e dalle infiltrazioni d’acqua piovana, furono rimossi e distrutti, fatta eccezione per quello della navata maggiore. Le coperture della chiesa furono totalmente rimosse e sostituite con nuove capriate in lamellare di castagno, ricoperte dalle antiche tegole, recuperate. Gli archi e i cordoli perimetrali del monumento furono consolidati con acciaio e cemento e le pareti rinforzate con infiltrazioni.
Si procedette quindi allo scavo nella navata e nel transetto. Lo scavo permise di scendere circa cinque metri sotto il livello della pavimentazione odierna, mettendo in luce un’interessante serie di elementi: sepolture di varie epoche, tracce di un’antica sede stradale, le basi degli antichi pilastri della chiesa originaria a tre navate. Ma il risultato dello scavo fu cancellato dalla successiva messa in opera dei vespai di calcestruzzo e dal riempimento con materiale petroso. Fu quindi realizzata una pavimentazione in cotto toscano con mattonelle di grandi dimensioni.
Gli ultimi interventi del lungo cantiere hanno riguardato le pareti. Compreso che la chiesa medievale era irrimediabilmente perduta, si è cercato di valorizzare l’edizione settecentesca del tempio. Durante i lavori di scavo si era staccata parte delle ridipinture più recenti, svelando la raffinata decorazione policroma del xviii secolo. Le paraste furono pulite tuttavia in modo sbrigativo, usando un’idropulitrice, e l’intervento danneggiò pesantemente la pellicola pittorica. Per riparare al danno, si fece integrare, a mo’ d’esempio, una coppia di paraste da una ditta specializzata romana. Al termine, furono sostituiti i portali lignei di entrambe le facciate, conservando tuttavia la ferramenta originale.
Gli ultimi vent’anni
Restituita alla diocesi, la chiesa negli anni novanta e duemila è stata sottoposta a ulteriori restauri. La parete sinistra della navata, quella dove era stata fatta la prova di integrazione delle paraste, fu interessata quasi completamente da un intervento di ripristino, ma l’operazione, come lo stesso esempio sulle paraste, si è rivelata molto problematica e insoddisfacente, soprattutto alla luce dei successivi restauri del grande organo a canne, la cui veranda, ripulita dalle numerose ridipinture, ha mostrato una decorazione a finti marmi e dorature identica a quella delle pareti, ma molto meglio conservata, fornendo finalmente un concreto riferimento, anche cromatico, per i futuri interventi sul resto dell’edificio. Anche il pregevole coro ligneo è stato oggetto di un delicato restauro conservativo.
Nell’ambito del PIS «Barocco» della Regione Puglia, oltre al suddetto restauro dell’organo, si è proceduto al rifacimento degli infissi, rifatti peraltro sulla base di quelli provvisori del cantiere che non erano stati collocati correttamente, e del pavimento (quello in cotto, deterioratosi velocemente, è stato sostituito con uno in pietra levigata), consentendo la riapertura del tempio al culto il 27 aprile 2008. Da quel momento, la parrocchia ha continuato a curare il recupero dell’edificio, facendo restaurare alcune tele e la grande bussola lignea dell’ingresso principale.
Emanuele d’Angelo
[1] Cfr. Corsi, San Severo nel Medioevo cit., p. 228.
[2] Cfr. Nino Casiglio, Bellumvidere. Il castello e le mura di San Severo, Foggia, Edizioni del Rosone, 1995, pp. 21-24.
[3] Di diversa opinione, per inciso, è Giuliana Massimo, che contesta la relazione col palazzo federiciano e ipotizza un unico ampliamento, quello terminato nel 1224, cui risalirebbero anche l’abside e il transetto. Cfr. Giuliana Massimo, La chiesa di San Severino a San Severo: la decorazione scultorea, in Atti del 24° Convegno nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia (Sansevero, 29-30 novembre 2003), Sansevero, Archeoclub d’Italia, 2004, pp. 67-90.
[4] Cfr. Matteo Fraccacreta, Teatro topografico storico-poetico della Capitanata, e degli altri luoghi più memorabili, e limitrofi della Puglia, tomo V, Napoli, Nella Tipografia di Angelo Coda, 1837, pp. 138 e 144.
[5] Cfr. Vincenzo Tito, Memorie della Parrocchiale e Collegiata Chiesa di S. Giovanni Battista eretta nella Città di Sansevero, Napoli, Dalla Tipografia del Sebeto, 1859, p. 33; Pasquandrea, Chiesa di San Severino Abate cit., p. 171.
[6] Cit. in Antonio Lucchino, Del terremoto che addì 30 luglio 1627 ruinò la città di Sansevero e terre convicine. Cronaca inedita del 1630, a cura di Nicola Checchia, Foggia, Cappetta, 1930, p. 81.
[7] Cfr. Pasquale Corsi, La Capitanata nel Quattrocento: problemi e prospettive, in Atti del 18° Convegno nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia (Sansevero, 29-30 novembre 1997), Sansevero, Archeoclub d’Italia, 1999, pp. 103-105.
[8] Cfr. Antonio Lucchino, Memorie della Città di Sansevero e suoi avvenimenti per quanto si rileva negli anni prima del 1629, a cura di N. Michele Campanozzi, Sansevero, Felice Miranda Editore, 1994, pp. 16-17.
[9] Cfr. ivi, p. 78.
[10] Cfr. Fraccacreta, Teatro topografico cit., pp. 138-140.
[11] Archivio Storico Diocesano di Sansevero, San Severino, B. 4, f. 18.
[12] Ibidem. Sulle richieste del clero perché il governo onori il voto rimando a Emanuele d’Angelo, San Severino, il Defensor Patriae, in San Severino Abate, patrono principale della città e diocesi di San Severo. Nel centenario della conferma del patronato, 1908-2008, Sansevero, Parrocchia San Severino Abate – Pia Associazione San Severino Abate, 2008, pp. 43-44.
[13] Ezio De Cillis, Chiesa di San Severino Abate, in Restauri in Puglia. 1971-1983, II, Fasano, Schena, 1983, p. 367.
[14] Cfr. Emanuele d’Angelo, Note sulla congregazione dei Morti di Sansevero (secc. xvii-xviii), in Atti del 24° Convegno nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia (Sansevero, 29-30 novembre 2003), Sansevero, Archeoclub d’Italia, 2004, pp. 194-195.
[15] Cfr. Dattiloscritto di don Raffaele Papa concernente la Chiesa di San Severino, in Pasquandrea, Chiesa di San Severino Abate cit., p. 255.
[16] Cfr. De Cillis, Chiesa di San Severino Abate cit., p. 367.
[17] Cfr. Dattiloscritto di don Raffaele Papa cit., p. 255.
[18] Cfr. Emanuele d’Angelo, Due inediti della decorazione settecentesca della chiesa di san Severino a Sansevero: il coro ligneo e il soffitto solimenesco, in Atti del 31° Convegno nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia (Sansevero, 13-14 novembre 2010), Sansevero, Archeoclub di Sansevero, 2011, pp. 247-248.
[19] Cfr. Dattiloscritto di don Raffaele Papa cit., p. 255.
[20] Cfr. d’Angelo, Due inediti della decorazione settecentesca cit., pp. 245-247.
[21] Cfr. De Cillis, Chiesa di San Severino Abate cit., p. 367.
[22] Cfr. Dattiloscritto di don Raffaele Papa cit., p. 255.
[23] Archivio Storico Diocesano di Sansevero, San Severino, b. 5, fasc. 25, 5. Insieme al foglio rubricato si conserva esclusivamente il contratto per l’organo.
[24] Va aggiunta una piccola acquasantiera settecentesca a conchiglia, in bardiglio, di manifattura napoletana, conservata in sacrestia, una sorta di miniatura di quella della chiesa di san Lorenzo.
[25] Cfr. Fraccacreta, Teatro topografico cit., p. 144.
[26] Cfr. Dattiloscritto di don Raffaele Papa cit., p. 256.
[27] L’epigrafe, scomparsa, è stata trascritta dall’arciprete Trotta. Cfr. Archivio Storico Diocesano di Sansevero, Sante Visite, Risposta dell’arciprete Trotta ai quesiti, 7 marzo 1897.
[28] Cfr. Emanuele d’Angelo, Patrono antico, statua nuova, in «Gran Patrono, ci proteggi!». Ricordi e immagini nel bicentenario della nuova statua di san Severino 1817-2017, Sansevero, Parrocchia San Severino Abate – Pia Associazione San Severino Abate, 2017, pp. 5-10.
[29] Cfr. Fraccacreta, Teatro topografico cit., p. 144.
[30] Cfr. Fraccacreta, Teatro topografico cit., p. 138.
[31] L’artigiano firmò e datò l’opera su una tavola di copertura.
[32] Cfr. Archivio Storico Diocesano di Sansevero, Sante Visite, Risposta dell’arciprete Trotta ai quesiti, 7 marzo 1897.
[33] Cfr. Archivio Storico Diocesano di Sansevero, San Severino, B. 27, vol. 208.
[34] Cfr. ivi, nonché l’epigrafe apposta a lato dell’altare maggiore.